StorieDì Cinema Ipazia: martire della Filosofia
Bernardo di Chartres usava dire che "siamo come nani sulle spalle dei giganti".
Il significato di questa espressione si rende presto evidente: la possibilità
di vedere lontano nel tempo,
indietro e soprattutto avanti, dipende da chi ci ha preceduto e da quanta
sapienza è stata raccolta e conservata nel corso dei secoli. Noi singoli uomini
siamo nani se privati della nostra storia e di tutti i giganti su cui quest'ultima poggia. Ma chi sono questi giganti?
Essi sono i grandi uomini e le grandi donne che con il loro contributo
hanno tentato di modificare in maniera radicale le nostre prospettive e conoscenze,
permettendoci di elevarci, andare oltre, crescere.
Tra le tante storie di giganti di cui potremmo parlare, riemerge chiaramente quella di Ipazia. Proprio lei, una donna straordinaria, filosofa, matematica e astronoma, nata probabilmente intorno al 350-360 d.C. e vissuta ad Alessandria, cresciuta nella grande biblioteca a stretto contatto con Platone, Aristotele e i grandi nomi della filosofia classica. Della sua figura non si sa molto, non abbiamo che attestazioni e fonti secondarie del suo operato, per mano dei suoi allievi. Tuttavia il suo nome rimbomba altisonante nei libri dedicati alla filosofia antica.
La sua storia, che tanto sembra stuzzicare la nostra curiosità, è stata rielaborata cinematograficamente nel film Agorà. Ma quale vicende si susseguono e giungono sino a noi dalla lontana Alessandria, sede del Grande Faro e della Biblioteca, ben due delle sette meraviglie del mondo?
Ipazia è una giovane insegnante, dedita al suo lavoro e alla ricerca. Nel film del 2009, diretto da A. Amenàbar, si confronta con le teorie cosmologiche di Tolomeo e intanto educa e coltiva i suoi allievi in quello che possiamo definire un momento di estremo travaglio e di transizione per tutto l'Impero Romano, che vive il tragico passaggio dalla religione pagana a quella cristiana. Anche la grande e antica città della nostra filosofa sembra coinvolta nelle diatribe tra cristiani, pagani ed ebrei e pare che sia proprio il popolo a soffrirne di più.
Tutto il film, infatti, sembra una perenne ricerca di equilibrio tra la via rationalis rappresentata dall'incrollabile fiducia riposta da Ipazia nella scienza e nell'utilizzo della facoltà intellettiva dell'uomo e, dalla via fidei, quasi una irrazionale tensione dionisiaca verso un trascendente che ci supera e che non possiamo abbracciare appieno. Nel film infatti, la setta di cristiani, detta "dei parabolani", estende sempre di più la sua influenza sulla città fino a prendere il potere e a soffocare quanto sembra andare contro i duri dettami della loro sacra legge.
Ipazia, quasi a rappresentare, si fa per dire, una più moderna Socrate, intenta a perseguire le regole della ragione e della coerenza, non riesce ad accettare pedissequamente la fede cristiana senza metterne in dubbio la coerenza interna, viste anche le azioni misere che la setta infligge ai gruppi di minoranza diversi da loro (vedi i pagani che vengono massacrati e gli ebrei che vengono prima lapidati e poi costretti alla fuga).
La nostra filosofa non può tollerare che Dio chieda questo e col tempo diviene e resta una voce scomoda, fuori dal coro. Non solo perché si permette di dissentire, ma anche perché è una donna con il coraggio di rivendicare una verità profonda e una dedizione autentica ad essa. È lei stessa ad ammetterlo, la sua fede incondizionata va alla Filosofia e a quanto reca con sé: responsabilità, conoscenza, sapienza, giudizio e obbligo morale di tutela e trasmissione di quanto ha appreso. È, infatti, universalmente riconosciuto che chi pensa di sapere, in realtà non conosce. Ma chi vuole conoscere veramente, penserà sempre di non sapere abbastanza.
Questo aspetto è costitutivo della figura di Ipazia, almeno di quella Ipazia che il film intende trasmetterci. Come è facilmente intuibile, scegliere di essere una mina vagante, scomoda ai potenti e a chi si trincera in una irrazionalità che rende sordi alla verità dell'altro, non permetterà un lieto fine alla nostra filosofa che lascia che i cristiani la uccidano, come hanno precedentemente bruciato tutte le pergamene della biblioteca. Ipazia è una martire, nel senso più greco e autentico del termine; ella è, infatti, una testimone, che accetta il suo sacrificio di sangue, nel nome del pensiero libero, della ragione e della filosofia.
Tale dualismo tra fede e ragione, però, non deve portarci alla conclusione erronea per cui la fede in Dio sconfina nell'irrazionale, mentre solo la ragione umana superomista salva. Quello che di Ipazia deve colpire è indubbiamente l'idea di uguaglianza e di rispetto, come quando cita la terza legge di Euclide: "se A è uguale a B e B è uguale a C, allora A, B e C sono simili tra loro". Ad Ipazia non interessa in quale fede si creda, purché ci sia la ragione a mediare e a sanare la follia di chi si abbandona alla credenza priva di un fondamento reale. Lei è pagana, eppure nulla le impedisce di dire che siamo tutti fratelli.
In un'epoca in cui a volte ci dimentichiamo dei giganti su cui siamo in groppa, in un momento storico in cui, come dice la Arendt, "la grande malattia del nostro tempo è che lasciamo che altri pensino per noi", riscoprire che la Storia conserva tra le sue pagine figure come quella di Ipazia, paladina della ragione e della verità autentica, deve tornare ad essere da monito per l'uomo. Perché non abbiamo artigli per difenderci o folte pellicce per sopravvivere al freddo; ma abbiamo l'intelletto, definito dagli antichi, la scintilla divina che è in noi.
di Carmine Taddeo