StorieDì Storia Il fardello dell'oplite
Gli storici dell'età classica rimangono spesso colpiti dai grandiosi risultati conseguiti dai greci, dalla loro abilità nella lavorazione del metallo, dall'attenzione per bellezza e forma dei particolari, e soprattutto, per quanto riguarda l'ambito militare, dalla protezione offerta dalla panoplia in bronzo, l'equipaggiamento bellico degli opliti che dava a chi la indossava la certezza di essere superiore a qualunque altro soldato dell'epoca.
Eschilo, veterano della battaglia di Maratona, pensa infatti che il successo della fanteria a Platea fosse una vera e propria vittoria della "lancia dorica", e allo stesso modo Erodoto era persuaso dal fatto che le armi e la corazza dei greci fossero la vera chiave per le vittorie in battaglia: "Gravissimo danno recava loro [ai persiani] l'indossare una veste priva di armatura: lottavano contro opliti ed erano armati alla leggera". (9.62.4)
Di contro, la panoplia, pesante, scomoda e calda in modo insopportabile, era particolarmente inadatta all'estate mediterranea. Limitava i movimenti più semplici e rendeva dura la vita agli uomini che dovevano indossarla. Secondo i calcoli moderni doveva trattarsi di un peso complessivo, aggiuntivo al peso del soldato greco, di circa 25/35 chilogrammi (gambali, scudo, corazza, elmo, lancia e spada). Non è un caso che nell'arco di circa due secoli e mezzo si fece strada la tendenza a non aumentare l'armamento difensivo, nel tentativo di avvolgere tutto il corpo come poi fecero più avanti i cavalieri medievali, ma invece ad alleggerire o eliminare alcuni elementi. La carica decisiva dei greci a Maratona (490 a.C.) riflette forse già una rinnovata mobilità e un ridimensionamento della panoplia. Mossa forse non possibile per i primi opliti, già attestati per il VII sec. a.C.
Da notare inoltre il fatto che non tutti gli opliti avevano necessariamente lo stesso equipaggiamento: gli uomini dovevano procurarsi il proprio armamento autonomamente e non veniva dunque fornito loro un'armatura "standard".
Testimonianza del fatto che per l'oplite la sua panoplia fosse un fardello non di poco conto sono sicuramente le numerose raffigurazioni di soldati che tendono a non indossare l'intero equipaggiamento, che tengono l'elmo appena appoggiato sulla fronte (stile visiera), oppure il fatto che la maggior parte di loro avesse dei servitori personali che trasportavano le armi per consegnarle al padrone solo e soltanto nell'imminenza della carica. Senofonte, nella foga della battaglia durante la marcia dei Diecimila, nel 401, rimase isolato dal suo portatore di armi e quindi senza scudo: indifeso, rischiò di essere catturato finché non giunse il suo aiutante. Numerosi sono inoltre i riferimenti, nella letteratura greca, al fatto che gli opliti abbandonassero le armi sul campo di battaglia. Evidentemente non vedevano l'ora di liberarsi di un enorme peso.
Ma cosa andava a comporre dunque nel dettaglio la già citata panoplia? Quali furono le caratteristiche salienti dei suoi elementi?
- LO SCUDO
A detta di V. D. Hanson, l'elemento più importante dell'armamento difensivo dell'oplite era lo scudo, un pezzo di legno rotondo e concavo del diametro di circa un metro, le cui misure precise dipendevano dal braccio di ciascun soldato. Doveva essere relativamente sottile (non più di due-tre centimetri), ma il suo peso doveva essere di circa 8 chilogrammi. Gli storici hanno attribuito grande importanza alla sua imbracciatura e impugnatura (porpax e antilabe), che per la prima volta distribuirono il peso lungo tutto il braccio sinistro invece di concentrarlo solo su mano e polso. Ciò lo rendeva indossabile più o meno per tutta la durata di una battaglia. Ogni tanto, per sostenere il peso, i soldati dovevano probabilmente appoggiarlo alla spalla sinistra. Molti furono comunque gli episodi di smarrimento dello scudo, come quello dello spartano Brasida di cui ci parla Tucidide, o come nel caso del generale tebano Epaminonda a Mantinea.
Forse la vera rivoluzione, più che l'impugnatura, fu però la sua forma concava: questa permetteva più agevolmente ad un soldato di scaricare il proprio peso contro quello degli avversari quando due eserciti si scontravano e si spingevano l'un l'altro.
- L'ELMO
Il copricapo preferito in tutta la Grecia durante la grande età della guerra tra opliti (700-500 a.C.) fu il cosiddetto elmo corinzio, in bronzo. Questo copriva la testa e buona parte del collo, scendendo sotto la nuca, fino alla clavicola. Era dotato di una cresta con lo scopo di parare o deviare i colpi provenienti dall'alto. Il suo difetto più evidente era che impediva di vedere e sentire bene, perché abbastanza scomodo ed ingombrante. Non sorprenderebbe se fosse questa una delle ragioni per cui si svilupparono formazione e tattica semplici della guerra per falangi. L'assenza di comunicazione diretta tra soldati non rendeva efficaci attacchi brevi e ripetuti. Ognuno doveva necessariamente tenersi a stretto contatto coi compagni. Ciò imponeva inoltre agli eserciti di combattere alla luce del giorno. Gli attacchi notturni erano rari e quando avvenivano generavano una confusione spaventosa.
Altro elemento non di poco conto era l'assenza al suo interno di materiale che ammortizzasse i colpi diretti al capo, a parte forse del cuoio, sicuramente inefficace. Il soldato doveva essere vittima di brutali contusioni, anche quando il bronzo resisteva al colpo. Quelli più violenti potevano lacerare il metallo e fracassare il cranio, conficcandosi insieme col cuoio e le ossa dentro il cervello.
- I GAMBALI
Polpaccio e stinco erano protetti o con un grembiale attaccato all'orlo inferiore dello scudo, o più comunemente con dei gambali, sottili lamine di bronzo che partivano dalla rotula e arrivavano alla caviglia. Quello dell'oplite classico era spesso privo di fibbie di metallo o lacci di cuoio, e i due bordi si toccavano dietro il polpaccio. Nonostante non aumentassero di molto il peso della panoplia, paradossalmente erano forse il pezzo che creava maggiori inconvenienti perché causa di irritazioni se non di smarrimento. Successivamente saranno sempre dotati di lacci, a dimostrazione del fatto che quelli greci non funzionavano alla perfezione.
- LA CORAZZA
La corazza classica degli opliti era costituita da un semplice corsaletto a campana, di lamine di bronzo per torace e schiena, unite all'altezza delle spalle. Se si voleva conservare un minimo di mobilità bisognava lasciare scoperti inguine e collo, entrambi privi di protezione. All'inizio del V secolo fecero la loro comparsa i modelli più leggeri in bronzo, cuoio e tessuto. Senofonte parla spesso delle caratteristiche necessarie per la corazza oplitica, che "doveva permettere al soldato di sedersi e piegarsi". Questa doveva pesare tra i 15 e i 20 chilogrammi. Per quanto il suo peso costituisse già una difficoltà notevole, altro problema era la mancanza di ventilazione. D'estate gli abiti sotto la corazza dovevano inzupparsi completamente; d'inverno, sotto la pioggia, la grandine, nel fango, la situazione doveva essere ancor più critica. La protezione offerta dal bronzo greco era però impareggiabile e probabilmente bilanciava qualsiasi disagio di fronte alla morte cui si rischiava di andare incontro.
- LA LANCIA E LA SPADA
La lancia greca, lunga circa due metri e mezzo, era maneggiata con la sola mano destra. Fatta di corniolo o frassino, aveva un diametro di due-tre centimetri, e pesava non più di uno o due chili. Quando l'oplite si avvicinava alla falange nemica, toglieva la lancia dalla spalla e la teneva sottomano. Tuttavia, dopo lo scontro, era più facile colpire il nemico tenendola sopramano. Gran parte delle lance, oltre alla punta di ferro, avevano anche alla base un puntale di bronzo acuminato, che la rendeva dunque pericolosa su entrambe le estremità.
Cosa nota comunque era la tendenza della lancia a spezzarsi nelle prime fila, nella brutalità dello scontro faccia a faccia. La sua lunghezza rendeva comunque non del tutto agevole la mobilità all'interno dello schieramento. A questo punto divenivano indispensabili la spada, xiphos (anch'essa soggetta a rottura o smarrimento) e la pressione del corpo.
Insieme alla crudezza della battaglia in sé, tutto ciò spiega inoltre la necessità avvertita dai soldati già in epoca antica nel fare ricorso all'uso/abuso di bevande alcoliche. Un incentivo cui gli opliti ricorrevano per far fronte all'alta tensione della guerra, alla carica del nemico, e al disagio causato dalle circostanze della battaglia. Il legame tra vino e soldati si faceva estremamente forte soprattutto prima della battaglia e ciò è già largamente attestato in Omero e Archiloco.
"E Dioniso ha una parte nel dominio di Ares" Euripide, Le Baccanti
Oggi non ci resta che immaginare quello che fu il fardello dell'oplite, le difficoltà della battaglia, la brutalità della guerra, e ricordarle affidandoci agli autori antichi e all'archeologia nella speranza che tutto questo componga un affresco quanto più verosimile di una memoria che nel suo insieme sia da monito per l'immediato presente e futuro.
Bibliografia:
V.D. Hanson, L'arte occidentale della guerra, Garzanti, Milano, 2001
di Giorgio Rico