StorieDì Storia La rivolta del ghetto di Varsavia
Chi non ha mai sentito la sirena di uno Stuka (Ju 87), forse il bombardiere più micidiale della Luftwaffe impiegato durante la Seconda Guerra Mondiale dalla Germania, probabilmente non capirà mai per davvero cosa significhi avvertire nelle proprie orecchie, poi su tutta la schiena, l'approssimarsi della morte. Quel suono voleva dire due cose: o l'Universo ha deciso che ti salverai, cosa che non dipende affatto da te, oppure sei assolutamente spacciato. E' finita, per te e per tutti quelli che ti circondano. Un attimo prima sei lì, quello dopo non c'è più nulla, e con te svanisce l'intero isolato o quartiere. Svaniscono intere porzioni di città. Dal tutto al nulla. Lo spazio si fa vuoto, incolmabile. (Per ascoltare il suono di uno Stuka)
Era il 16 maggio 1943. E l'ultima cosa che gli ebrei del ghetto di Varsavia sentirono non fu una canzone d'amore, non fu il suono della natura, non fu una carezza di una madre, e nemmeno un bacio di una sposa o di uno sposo. L'ultima cosa che si udì quel giorno fu il suono della morte, mascherato da possenti esplosivi tedeschi, poi il gelido niente assoluto. Si combatteva ormai da un mese, esattamente dal 19 di aprile, nonostante le energie non bastassero, nonostante le armi fossero difficilmente reperibili, nonostante le speranze fossero prossime allo zero.
Dall'inizio del 1940, i nazisti avevano preso a concentrare in Polonia oltre 3 milioni di ebrei in sovraffollati ghetti dislocati in varie città. Nel più grande di questi, quello di Varsavia, dall'estate dello stesso anno furono internate, in uno spazio di pochi chilometri quadrati, circa mezzo milione di persone, e le condizioni di vita divennero man mano peggiori. Nel ghetto si moriva, moltissimo. Si moriva di freddo, di fame (le razioni giornaliere consistevano in 20g di pane e un pugno di fiocchi d'avena), si moriva di tifo. Nel ghetto morivano quasi duemila persone al giorno. E chi sopravviveva alla giornata andava in ogni caso incontro alla morte. Il destino di quegli uomini era segnato, perché di lì a poco iniziarono i trasferimenti nei campi di concentramento e cominciò a maturare quella che fu la "Soluzione Finale": lo sterminio. Nel gennaio del 1943 erano rimasti nel ghetto circa 70.000 ebrei, dopo le frequenti azioni di "liquidazione" che puntavano soprattutto ad eliminare "gli inutili" (gli inadatti ai lavori pesanti).
Allo stesso tempo però si concretizzarono i primi moti di resistenza: la presenza tedesca nel ghetto venne momentaneamente meno, le organizzazioni della resistenza ebraiche (ŻOB e ŻZW) ne presero il controllo, iniziando a scavare bunker e tunnel sotto le case, collegati tra loro attraverso le condotte di scarico ed al sistema idrico ed elettrico, dovendo contemporaneamente far fronte ai collaborazionisti.
L'insurrezione ebbe inizio praticamente all'alba del 19 aprile, nel periodo del Pesach, la Pasqua ebraica, quando, all'interno del ghetto, una colonna di soldati tedeschi venne bersagliata di colpi di arma da fuoco, bottiglie incendiarie e granate provenienti dalle finestre; i soldati indietreggiarono rapidamente e dopo circa un'ora la presenza di soldati tedeschi nel ghetto era stata ridotta allo zero.
Il generale Stroop assunse personalmente il controllo delle operazioni e diede immediatamente ordine ad un reparto, sostenuto da due autoblindo, un carro armato, due cannoni antiaerei ed un cannoncino leggero, di entrare nel ghetto e di neutralizzare gli insorti ma l'azione non ebbe l'esito sperato e fu solo l'inizio dei combattimenti, destinati a protrarsi per quasi un mese.
La tattica degli insorti consisteva nel tenere i tedeschi impegnati sparando dall'interno di una casa mentre una parte di essi, attraverso passaggi sotterranei, giungeva alle spalle del nemico stringendolo in una morsa; i tedeschi tuttavia, dopo l'iniziale sorpresa, compresero la strategia ribelle e contrattaccarono usando lanciafiamme e gas asfissianti, per poi inondare i sotterranei.
Il buio spesso impediva di proseguire nelle azioni di repressione, cosicché spesso i combattimenti riprendevano allo spuntare del Sole. Verso la fine di aprile, una mattina, un reparto d'assalto riuscì a sgomberare alcuni edifici e a catturare circa 60 insorti ma gli occupanti, circa 800, che si difesero sparando con fucili dai tetti e dalle finestre, e lanciando sugli assalitori bottiglie al vetriolo, riuscirono a fuggire attraverso i passaggi sotterranei, che furono successivamente fatti esplodere. Le case furono date alle fiamme. Dalle annotazioni dei tedeschi sappiamo che tra gli insorti vi erano perlopiù giovani ebrei, ma anche donne.
Stroop diede poi l'ordine di incendiare il ghetto, cosicché i genieri tedeschi, spostandosi da una casa all'altra, cosparsero i pavimenti in legno e le scale degli edifici di benzina, appiccando il fuoco. Ma la resistenza non si esaurì. Alcuni insorti presero addirittura a lanciarsi dalle finestre quando si trovarono ormai in pasto alle fiamme. I combattimenti proseguirono incessanti per altre due settimane ed i tedeschi, allo scopo di eliminare tutte le sacche di resistenza, dopo avere incendiato il ghetto dovettero far saltare con la dinamite i blocchi di macerie dove trovavano rifugio gli insorti.
Il 16 maggio ci fu l'ultima alba nel ghetto di Varsavia. Fu interamente raso al suolo. Stroop dichiarò che "il quartiere ebraico aveva cessato di esistere". Non c'era più segno di quanto un tempo vi era esistito. E' inutile persino cercare di fare una conta delle vittime. Ve ne furono a decine di migliaia. Senza contare tutte quelle avvenute nei campi di Treblinka, o di Łódź.
Terminata la rivolta, quello che ormai era l'ex-ghetto divenne il punto per le esecuzioni di prigionieri ed ostaggi polacchi. A Varsavia l'orrore della guerra non si arrestò, perché un anno più tardi fu teatro di nuovi scontri armati, bombardamenti e devastazione. E lo era stata già alcuni anni prima, nel 1939.
Eppure tra quelle macerie avvenne un piccolo "miracolo": nascosti tra le mura diroccate o interrati nel terreno furono successivamente rinvenuti i resti di un fondamentale archivio ebraico della memoria delle persecuzioni e del genocidio. Diari, cronache, bollettini, stampa locale. Un esplicito atto di resistenza culturale che a distanza di decenni ha ottenuto la sua vittoria: conservare la testimonianza ed il ricordo di quanto accaduto, per evitare che accada di nuovo.
di Giorgio Rico
Bibliografia: T. Detti (a cura di), "Le guerre in un mondo globale", Viella, 2017
AA.VV., "Storia della Shoah", UTET, vol. I e II, 2005
Filmografia: R. Polansky, "Il pianista", 2002